Scivolano
intorno
come intoccate
le cose quotidiane
gocce salate
di mare di lacrime
gocce di rugiada
al risveglio mattutino
gocce di sudore
la pelle trema e freme.
Alcune si smarriscono
non imprimono memoria
e la polvere
si adagia nel calco
lasciato dal loro peregrinare.
Scivolano
verso chissà dove
-solo ciò che si imprime
rimane indelebile
radice nella terra
dell’anima.
Quel giorno
Mercurio
sbattendo le sue piccole ali
ai piedi
scese su di te
ti sollevò
abbracciandoti.
Eri già eterea
leggera,
ci avevi ormai salutato,
rimaneva il tuo guscio.
Poi anche quello svanì,
nelle sue ceneri
-riposano adagiate
nel grembo materno.
Sei tornata là
da dove sei venuta.
Con amore.
…I bambini no i bambini no…
Gridavi
E pensavamo essere un urlo folle.
Era sì un urlo folle
Ma di chi non accettava
L’inumanità –
Allora possedeva l’uomo-
Forse anche oggi?
Imponente
La sofferenza del mondo
Dei bambini uccisi
arrivava a te
E solo la follia permetteva
Di urlare di gridare
Il dolore
Altrimenti disperso nel vento
Come le ceneri
Il loro nome
La loro memoria.
Avresti pianto
Tutte le lacrime del mondo
E urlato all’infinito
Con una eco incessante
…I bambini no i bambini no…
Fino a quando la voce
Sarebbe sfumata
soffocata
Dall’orrore
– ancora
Non cessa e si perpetua
Nonostante i mai più -.
Una stanza enorme buia accoglie il Memoriale dei Bambini allo Yad Vashem. Si entra al buio, seguendo un corrimano, gli occhi faticano a abituarsi all’oscurità, i piedi stentano a fare un passo dopo l’altro presi dalla paura di non trovare il terreno sotto di loro e di inciampare. Come i bambini che videro spezzata la vita in modo barbaro. La declinazione continua dei loro nomi e dell’età accompagna il percorso, insieme alle mille lucine che si accendono e si spengono, come è stata fulminea la loro vita. Quando si riemerge alla luce, sono le lacrime che annebbiano la vista dalla commozione che permettono agli occhi di riabituarsi alla luce calda gerosolimitana.
Esperienza indimenticabile, emozioni dense, che si ancorano dentro.
La visita allo Yad Vashem di Gerusalemme1 (Yad Vashem” è parola di Dio, come dal passo del Libro di Isaia 56:5: “concederò nella mia casa e dentro le mie mura un memoriale e un nome (yad vashem) … darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato”) mi ha portato a riflessioni e collegamenti alla pratica assistenziale. Tutto ha un filo che lega i pensieri e le azioni ed è possibile trovarne le congiunzioni, aprendo anima e occhi a ciò che, pensandolo casuale, ci arriva.
Al di là dell’evento storico innegabile che ha ucciso milioni di esseri umani, colpisce l’idea di fondo dell’evento stesso: l’annientamento delle persone e al tempo stesso lo sforzo che milioni di esseri umani hanno fatto per non soccombere ad esso, cercando di mantenere vive dentro di sé e nella comunità di appartenenza le tradizioni, i pensieri, le azioni che li tenessero saldamente legati a ciò che nessuno vuole perdere: l’identità.
Nessuno può dire «io» senza un «tu» che lo riconosca e lo confermi. La soggettività è un effetto dell’alterità. Come scrive Fernando Pessoa «Quanti sono io? Chi è io? Cos’è questo intervallo che c’è tra me e me?». [ ] Come racconta Primo Levi, nei campi di concentramento nazisti l’obbligo imposto ai prigionieri di lavorare a vuoto, come scavare una trincea per poi riempirla, serviva a completare il progetto di annientamento, a concludere un assoggettamento inteso come cancellazione della soggettività, del senso di sé, dell’autostima, a produrre automi. (Silvia Vegetti Finzi, Una bambina senza stella, Rizzoli 2015 pag 72)
Le sale dello Yad Vashem riportano a questo, al mantenimento dell’identità o al recupero di essa con la restituzione, purtroppo per molti a posteriori, dell’identità attraverso ciò che caratterizza, distingue un essere umano dall’altro: il nome, il volto, gli occhi. Restituire il nome e il volto a corpi che non sono più, significa evocarne la vita con la memoria dell’essere che sono stati. Una delle sale dello Yad Vashem ha la forma di cupola piena di foto di volti che sorridono o sono seri davanti alla macchina fotografica del secolo scorso. Sono gli occhi di chi non è più e che giustamente ci guardano dall’alto sottomettendoci alla loro e nostra storia.
Non siamo più, ma eravamo e la vita era in noi, sembrano dirci quegli sguardi.
…la vera morte avviene quando nessuno ti ricorda più, quando sparisce quello che hai tramandato…Si muore definitivamente tra i viventi solo quando muore l’ultima persona che ti ricorda…” (Noi donne, ottobre 1990, Rosetta Albanese)