Il blog di Luciana Coén

Archivi del mese: marzo 2015

Esercizi di pace

Ci sono incontri che avvengono nostro malgrado, a nostra insaputa, la cui natura e spiritualità si svela dopo che il corpo a corpo è avvenuto, dopo che il suo secondamento è stato, trascinati dolcemente dalla corrente dello scorrere/fluire nella nostra vita.

Cambia casa.

Trasloca e attacca il cartellino con il cognome sul campanello.

È un cognome insolito che la accompagna da sempre insieme alla frequente domanda: è straniera? Da dove viene? E solita è la risposta: origine ebraica. Riaffiora la paura, instillata sin da piccola, quando la madre paventava l’eventualità che qualcosa potesse succedere ai suoi figli con quel cognome di origine ebraica.

Le appartiene questa diversità del cognome non comune che qualche volta ha creato difficoltà, distanza. Come se il cognome identificasse, catalogasse la persona dentro un gruppo di appartenenza, impedendone talvolta l’effettiva e concreta conoscenza. Fortunatamente sono rare queste occasioni.

Il rispetto nasce dal riconoscimento dell’Altro, indipendentemente dalla sua origine o provenienza; sono fondamentali la curiosità, il desiderio per l’incontro dell’Altro.

Il primo incontro è avvenuto tra profumi di detersivo, lavatrici, piumoni da lavare, un luogo dove l’atto di lavare indumenti e arredi fa incontrare, unire e conoscere attraverso le necessità quotidiane. Un breve saluto iniziale e il reciproco riconoscimento.

Angela Finocchiaro era andata via da poco, dopo aver partecipato al ballo di one billion rising il 14 febbraio, che lei era arrivata e da lontano l’aveva salutata, lasciandola perplessa per la sua presenza in piazza.

La musica del fortepiano ha fatto da sottofondo all’incontro successivo, casuale anch’esso, un faccia a faccia di stupore e sorpresa reciproca. La conoscenza si approfondiva, insinuandosi dolcemente nella vita dell’altra.

Poi l’incontro più sorprendente per il contesto in cui è avvenuto: lei di origine ebraica che partecipa alla presentazione del libro del giornalista scrittore palestinese Ghassan Kanafani ucciso dal Mossad a Beirut nel 1972. Ancora un faccia a faccia, stavolta con lo stupore stampatovi sopra e la domanda sottesa: ma come, viene in un luogo a connotazione prevalentemente filopalestinese? Non ha paura? Espressa in maniera neutra: sei interessata, lo conosci?

Lei non colse nulla dei sentimenti dell’altra, rispose raccontando il suo recente interesse per la storia e letteratura palestinese, dopo aver letto letteratura israeliana, alla ricerca delle proprie similitudini con l’origine di appartenenza ereditata.

Tornata a casa, decise di approfondire la conoscenza della condòmina, scese le scale, donandole i suoi scritti. Accolta in casa, conversarono, trovando punti di contatto nelle loro storie di vita.

Nonostante abitino nello stesso palazzo, la quotidianità non permette incontri, ma, stranamente, i loro incontri avvengono sempre al di fuori della casa, in situazioni casuali. L’ultimo, per strada, al ritorno dal lavoro e mentre lei andava ad un concerto d’organo. Le dice di aver letto i suoi scritti e di averne colto il coraggio per averglieli donati mentre ancora non è riuscita a salire le scale per parlarle e dirle le sue impressioni. Riescono a darsi un appuntamento, a casa stavolta, dedicandosi uno spazio nelle loro giornate.

Così racconta:

Quando ho visto il cognome sul campanello, ho avuto un moto di stizza, io filopalestinese e tu sopra, di origine ebraica…poi l’incontro in lavanderia, gli altri incontri fino alla presentazione del libro palestinese dove la tua presenza mi ha imbarazzato, sconvolto, perché la ritenevo inopportuna, quasi pericolosa per te, fuori luogo per le tue origini. Il giorno dopo mi hai portato i tuoi scritti, nelle chiacchierate successive sono emerse comunanze nella nostra storia e mi sono ritrovata a fare un esercizio con me stessa. Mi credevo aperta, senza pregiudizi, accogliente verso tutti e invece con te davanti, mi sono ritrovata a fare i conti con la mia ombra nella quale residuano e abitano pregiudizi, preconcetti rendendo complesso l’incontro. Ripensando al momento in cui sei arrivata ad abitare sopra di me, le situazioni in cui ci siamo riviste in seguito, c’è un filo sottile che indica, segue un percorso di avvicinamento fino ad un incontro più intimo, aperto, accresciuto dalla curiosità reciproca.

L’universo, o chi per lui, ti ha mandato a me per farmi lavorare su questa mia ombra, per farmi fare esercizi di pace.”

Lei sorride, partecipa al percorso. Lei non ha percepito sentimenti negativi, contrastati che l’altra viveva. Ha invece sentito movimenti di avvicinamento. Sorride, forse quasi gratificata dall’occasione creata e accolta completamente, come fosse un elemento di-rompente nella vita altrui, già era successo.

Rientrata a casa, ripensa agli eventi. Alterna un sorriso a tristezza, quando si affaccia la difficoltà a portarsi dietro un cognome insolito, a conviverci. Tristezza per quanto ancora sia forte il preconcetto rispetto ad una persona, legato alle apparenze, alla forma più che non alla reale sua conoscenza. A conferma, purtroppo, di come la mente umana sia costruita su categorie e abbia bisogno di catalogazione, schematismi dando pochissimo spazio all’intuizione e percezione emotiva, a quel sentire di pelle e con il cuore che caratterizza maggiormente il primo contatto/incontro con l’Altro, dove il corpo, la fisicità, l’umoralità, l’odorato hanno la meglio sulle rappresentazioni mentali precostituite, se viene accolto il loro esserci e sentire.

Essere al tempo stesso origine di una riflessione su sè e oggetto di un pregiudizievole razzismo rimette in primo piano difficoltà che credeva superate, relegate ad un passato ormai lontano e la lascia perciò stupita, perplessa. Al tempo stesso prevale la positività costruttiva insita nella criticità perchè tutte e due le donne sono entrate partecipi, consapevoli, nel gioco dell’Altra, hanno accettato il rischio, senza trincerarsi dietro al proprio sé pre-costituito e costruito, aprendosi all’accoglienza dell’altrui diversità reciprocamente, inglobando anche il pregiudizio dell’Altra senza chiudersi in un atteggiamento offeso-difensivo.

Un esercizio di pace scambievole.

Di accoglienza della diversità e dono per l’Altra; di superamento degli schemi mentali legati ad un pregiudizio.

Niente è permanente tranne il cambiamento”, diceva una psichiatra ad un convegno.

La pace che può derivare solo dal rispetto, inscindibile dal riconoscimento dell’Altro – da – me, è alla base del cambiamento insito e indispensabile in ognuno di noi per partecipare alla continua crescita ed evoluzione dell’umanità.

Gli schemi che costruiamo nella nostra mente (maschio, femmina, filopalestinese, filoisraeliano, rosso, nero….) operano una insana generalizzazione che impedisce di vedere l’unicità dell’Altro e riduce, limitandolo, il moto di curiosità verso di lui.

Tornano alla mente le riflessioni del medico palestinese Izzeldin Abuelaish quando nel libro autobiografico “Non odierò” narra dell’esercizio di pazienza e di pace che fa nelle lunghe attese ai check point di Gaza per andare a lavorare in un ospedale israeliano, cercando di non generalizzare il comportamento inadeguato di “un” (quello solo) funzionario o soldato israeliano con “tutti” (tutto il popolo israeliano o tutti gli ebrei), perché a fronte di qualche israeliano ostile, ha conosciuto numerosi israeliani con i quali ha condiviso esperienze di vita e professionali e idee ed azioni di pace.

L’origine è la persona e non la categoria in cui la nostra mente l’ha collocata, catalogata, inquadrata.

Un esercizio di pace notevole de-strutturare, de-frammentare l’hard disk della nostra testa, ma indispensabile per ri-volgere lo sguardo, il cuore, l’anima verso chi ci sta accanto, ci è prossimo.

Riconoscere le opportunità che ci arrivano dal vivere quotidiano per mettere in pratica ciò che predichiamo a più alti livelli è un altro esercizio di pace per sperimentare nella vita e sulla propria pelle la com-prensione e accoglimento dell’Altro-da-me.